venerdì 9 dicembre 2011

The Artist - la recensione del film di Michel Hazanavicius

 
Era dai tempi de L'ultima follia di Mel Brooks, se non andiamo errati, che il cinema muto non arrivava sul grande schermo. Ma se quel film – godibilissimo - si iscriveva di diritto nel registro parodistico e farsesco tipico dell'autore, The Artist sembra nascere da una vera e propria necessità. Quello che colpisce immediatamente, vedendolo, sono la straordinaria passione, la cultura cinematografica e la cura per il dettaglio che lo animano e gli hanno dato vita contro tutto e tutti. Basterebbe questo a farcelo amare: non c'è alcuna presunzione in quest'impresa, ma la volontà di rendere omaggio a un cinema venerato, che ha formato generazione di registi e spettatori, fatto da autori europei con capitali del nuovo mondo in quella che diventerà la culla e la mecca della settima arte, Hollywoodland (come ancora recitava il celebre cartello sulle colline di Los Angeles). Un luogo che diventa fin da subito fabbrica di sogni, emozioni, vite alternative, che crea stelle e mostri, capace di accogliere a braccia aperte gli artisti in fuga dall'Europa in fiamme, ma al tempo stesso di trattare i suoi divi a contratto come polli di allevamento. Un luogo pieno di luci e ombre, reso alla perfezione dalla formula - muto + bianco e nero - scelta da Hazanavicius.
L'idea vincente del film dunque non è quella di prendere una forma antiquata per far recitare gli attori in modo esagerato e giocare a fare il cinema muto, ma quella di mandare volti, corpi e paesaggi in un viaggio a ritroso nella macchina del tempo, di trasformarli col trucco, le scene e i costumi per poi inserirli nelle vere location della storia (Peppy vive nella casa che fu di Mary Pickford!) con i veri oggetti di scena e la musica sul set. Poi basta chiedere agli interpreti una recitazione il più naturale possibile, e il gioco è (quasi) fatto.
Dalla geniale idea di velocizzare leggermente le riprese a quella di sfumare il bianco e nero in una gamma infinita di grigi, a seconda dello stato d'animo del protagonista, The Artist è un film talmente pieno di brillanti intuizioni da essere forse, in certi momenti, anche “troppo” perfetto.  Può essere questo l'unico difetto di una pellicola che riprende anche i generi del cinema classico hollywoodiano – non solo di quello muto - nella sua struttura narrativa: ecco il melò, la love-story, la caduta dopo l'irresistibile ascesa, il dramma, lo scintillante luccichio del musical. C'è davvero di tutto dentro The Artist: Quarto potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto di Billy Wilder (la parabola della star che non si rassegna, accompagnato dal fedele autista che firma anche gli autografi per lui e gli resta accanto nella disgrazia) e – anche se è il richiamo più ovvio e forse  meno voluto – E' nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. Ma ci sono anche Lubitsch, Murnau, i film di King Vidor, i numeri di tip tap di una grande coppia danzante come Fred Astaire e Eleanor Powell.
E il protagonista, col fedele cagnolino che lo accompagna sempre, è un incrocio tra William Powell, il John Gilbert messo in crisi dal sonoro,  Douglas Fairbanks ed Errol Flynn: bello di una bellezza in apparenza inscalfibile dalla vita, il volto trasfigurato da un eterno, sfavillante sorriso, sempre pronto a giocare coi fan. Una star talmente convinta della propria invincibilità da rifiutarsi di cambiare, un uomo che preferisce assaporare fino in fondo la propria caduta in disgrazia invece di rimboccarsi le maniche, o di accettare l'amore disinteressato di una ragazza più giovane. A dargli corpo, fascino, sguardo, è un incredibile attore chiamato Jean Dujardin, che ha iniziato la propria carriera facendo il buffone nei vari Zelig d'oltralpe, e che dimostra qui un'espressività e un carisma assolutamente all'altezza dei suoi modelli. Lo affianca la moglie del regista, Bérénice Béjo, bellissima e vivace “maschietta”, che sembra uscita da uno dei racconti più scintillanti di Francis Scott Fitzgerald. E sono perfetti anche gli attori “secondari”, da John Goodman a James Cromwell. A tutto questo Hazanavicius aggiunge le belle musiche di Ludovic Bource e un concetto di regia davvero moderno: senza spoilerare niente, diremo che il film non è interamente muto, e l'uso che il regista fa del sonoro è – ancora una volta – di un'intelligenza non comune. Come i grandi film che Hollywood non sa più darci, con il loro carico di emozione pura e glamour assoluto, The Artist compie il suo miracolo lasciando lo spettatore contento e stupito, con la voglia, probabilmente, di rivederlo ancora una volta. In mancanza della voce lo sguardo torna protagonista e il cinema, “che è diventato piccolo” come diceva Gloria Swanson, riacquista le sue giuste dimensioni.

martedì 6 dicembre 2011

Almanya, la mia famiglia va in Germania - la recensione 

Fare un film, soprattutto il primo film, pensato, scritto e cambiato per poi essere presentato al mondo. Un po' come l'atteso momento di riempire un'ideale "pagina bianca", con la propria determinante e personalissima storia, o conoscenza, o immaginazione che sia. Ciò che la dovrebbe rendere diversa dalle altre, comunque importante quanto le altre, e farla rimanere bene a galla, nel tempo. Sfida difficile, tentata da molti, vinta da pochi.
La regista Yasemin Samdereli che dieci anni fa, insieme alla sorella Nesrin, ha iniziato a scrivere sulla sua "pagina bianca", conclude il suo percorso di iniziazione al cinema, lasciandoci davanti agli occhi, un album di famiglia dai colori caldi e vividi, su cui restano impressi ricordi e racconti pieni di indiscutibile valenza emotiva.
Non era un gioco facile il suo, soprattutto in patria. Partendo dal proprio vissuto di giovane di origine turca - ormai naturalizzata tedesca da due generazioni - la regista ha voluto, e cercato di raccontare (di nuovo e a suo modo) il senso profondo dell'essere immigrati, la realtà che meglio conosceva, e che aveva urgenza di venire alla luce. Aggiungendo così, un altro piccolo tassello, stavolta lieve e colorito, che si inserisce nella storia di una cinematografia che, da anni, affronta il tema dell'integrazione, in un'ottica conflittuale e drammatica.
Scongiurato il rischio di essere condannato per faciloneria, e respinto come superficiale voce fuori dal coro di serietà e impegno (il film infatti è stato accolto positivamente dalla critica, e da un clamoroso successo di pubblico, in Germania), restava un altro, e forse più ingrato, compito. Quello di emergere tra le numerose pellicole internazionali che, da oltre un decennio, "festeggiano" il melting pot multi-etnico, raccontandone, attraverso i toni della commedia, anche i non trascurabili fallimenti e complessità. Tutt'intorno il paese, nuovo e freddino, che storcendo il naso li accoglie, in mezzo loro: pakistani, indiani o turchi che ballano, mangiano, ridono e piangono. Come in molti film, anche in questo. La trappola della memoria nostalgica e della cronaca dolce amara di lontananza e storia familiare, può infatti tradire anche la sceneggiatura più fresca.
Le sorelle Samdereli amano i classici della commedia, e la loro narrazione rimane quasi sempre brillante e cristallina, e i momenti di retorica sentimentalista si fanno dimenticare, in un lavoro di scrittura dall'ottima tenuta che, come racconta la regista, può ringraziare sinceramente riferimenti come Ernst Lubitsch e Woody Allen.
La storia del patriarca Hussein Yilmaz, (che per un soffio non fu il milionesimo e acclamato Gastarbeit della Germania del 64), pronto, dopo quaranta anni a portare tutta la famiglia, in Anatolia, dove segretamente ha acquistato una piccola casa, è cadenzata dai flash back che la giovane nipote crea, raccontandola al piccolo cuginetto Cenk, in piena crisi di identità culturale.
La famiglia Yilmaz infatti è tedesca a tutti gli effetti, sottoscrivendo anni prima un patto infernale che li obbligava a mangiare maiale tutti i giorni, vedere l'Ispettore Rex una volta a settimana, e andare ogni due anni in vacanza a Palma di Maiorca.

E' forse il fatto che sia spesso il punto di vista dei bambini, a coincidere con il racconto dei fatti, che rende più tangibile lo stupore davanti allo sconosciuto e diverso, l'assurdità dei pregiudizi (quasi inevitabili) e l'aspetto anche grottesco di certe paure; è infatti questa flagranza, il punto di forza del film. Insieme ad essa, la performance globalmente riuscita, di un cast "multiculti", in Italia poco conosciuto, ma meritevole di grande attenzione.
Così il terrore per il crocifisso, truculenta figura che perseguita Muhamed, il secondo figlio di Hussein, o lo spettro paradossale del cannibalismo, nato dall'idea del sacramento della comunione, aggiungono garbatamente una prospettiva in più, quella sulla diffidenza turca nei confronti del paese ospitante, come ulteriore modo per guardare ai propri limiti, dalla parte opposta della "barricata".
Cavalcando il surreale, con regia e fotografia che ricordano (non poco) il Jean-Pierre Jeunet di Delicatessen e de Il favoloso mondo di Amélie, nella ricerca dell’effetto un po' si eccede; ma sono comunque di più i momenti preziosi in cui, sorridendo e ridendo, nitidamente si guarda a ciò che significa essere perennemente stranieri, andata e ritorno, attratti e respinti dai due poli, tra cui sono divise intere generazioni.

Mosse vincenti - la recensione del film con Paul Giamatti

A vederlo superficialmente, Mosse vincenti sembra solo l’ennesima storia di riscatto esistenziale di un loser di mezza età, capace di rimediare ai suoi errori e alle sue sconfitte grazie alla novità nella sua vita incarnata da un adolescente problematico che gli fa riscoprire stimoli e bussola morale. E, sia detto per inciso, la scelta di affidare il ruolo del protagonista, Mike, al sempre più manierato e detestabile Paul Giamatti sembrava coerente al disegno generale.
Ma l’opera terza di Tom McCarthy (che ha intervallato il cinema con la realizzazione del mai trasmesso pilot del serial di culto Game of Thrones

), è a suo modo un film più complesso di quanto il sunto della sua trama (superficiale, appunto) possa lasciar intendere.
Il regista stesso, presentando il suo film, ha ribadito come le motivazioni economiche che dettano il comportamento iniziale del suo protagonista (quelle che precedono l’arrivo della variabile imprevista rappresentata da giovane Kyle) siano un’ovvia chiave interpretativa che permette di leggere Mosse vincenti come una sorta di apologo morale sulla vita ai tempi della crisi.
Una crisi pervasiva, capace di destabilizzare ben oltre il livello immediato, provocando una corruzione che è per l’appunto morale e interiore prima ancora che relativa a fatti e cifre.
McCarthy
, nel tratteggiare questi aspetti, smorza sensibilmente i toni rispetto alle sue opere precedenti, risultando meno dolente e molto più conciliato, nell’evidente intenzione di gettare una luce di speranza che non significa superamento ma sincera accettazione e organica convivenza con le difficoltà (economiche e non) della vita.

Se nel far ciò non scivola eccessivamente nel buonismo è anche e soprattutto grazie alla capacità di scrittura che ha sempre dimostrato di avere, all’abilità di tratteggiare con leggerezza e incisività sia i protagonisti che la rete di situazioni che si vengono a creare.

McCarthy
rende in questo modo vivi e credibili i suoi personaggi, sopperendo alla mancanza di spunti realmente originali e livellando le asperità di una storia che, soprattutto nel finale, scivola a volte nel patetismo prevedibile e programmatico dei buoni sentimenti e della riscossa a tutti i costi.

Questa scrittura, unita la volontà di guardare dentro alle teste e ai cuori dei protagonisti, e non solo dentro il loro portafogli, rendono però
Mosse vincenti un film costruito su dettagli e sfumature che rendono l’idea di un insieme e di un sentimento ben più dello stagliarsi delle figure e dei temi in primo piano.
E tra un dettaglio e l’altro, intervallato da alcuni dialoghi e battute decisamente brillanti, il film lascia anche intravedere, oltre alle riflessioni economiche in evidenza (e quindi secondarie), anche un’idea di famiglia assai meno tradizionale e rassicurante di quanto non appaia in prima battuta, arrivando a mettere dolcemente in dubbio il dogma del diritto biologico ad esercitare il ruolo di genitore.

venerdì 2 dicembre 2011

Il giorno in più - la recensione del film con Fabio Volo


Il Volo newyorkese è stato sereno, non sorprendente, moderatamente lungo, gradevole senza sbalzi folli (forse qualcuno d'umore). Abbiamo guardato fuori pensando che un film tratto da un suo libro sarebbe arrivato presto, e quello italo-americano aveva più chance di tutti. E' stato così, e questo è il modo in cui hanno distribuito le carte. Metà a Massimo Venier, metà a Fabio Volo, in coppia con Isabella Ragonese.

Tra Milano e New York Il giorno in più è di Massimo Venier nella proporzione stilistica, nella fluidità narrativa tra due centri cittadini, nella commedia soft che apre i battenti al sentimento e alle dolci svolte di percorso. E' di Fabio Volo per un buon libro che è idea sua (rivisto e aggiornato per il cinema insieme al regista, Pontremoli e Pellegrini), per un personaggio che si aggancia fin troppo a lui, per un'immediatezza emozionale che è il suo maggior pregio, ma va calibrato ad ogni nuova occasione.

Giacomo (Fabio Volo) e Michela (Isabella Ragonese) hanno ragione entrambi di vivere a Milano, a modo loro. Lui da simpatica canaglia, da uomo di successo che indovina i desideri altrui, ma non i suoi, che vuole le donne a breve, avendone però un costante bisogno. Lei, di lei non si sa molto, se non che lavora, è spiritosa oltre che bella, e senza acidità sa cosa aspettarsi da molti primi appuntamenti. Questi della storia sono i binari e della contemporaneità i segni. Se Michela non dovesse partire, la magia dei soli sguardi in tram e della donna ideale disegnata in fantasia da Giacomo (ad amici e parenti), rimarrebbe confinata lì. Invece la commedia di Venier passa l'Oceano per diventare romantica e possibilista. Passa l'Oceano per determinare il gioco di una coppia appena formata, che non vuole definirsi per stare insieme. Quindi sceglie, negli stessi luoghi, vie, parchi di molti altri amanti classici e moderni, di vivere un delizioso concentrato "a termine". E' una sensazione nuova per loro, che arriva a noi con la spontaneità del disimpegno e il calore timido del primo approccio (iniziato con un gesto impulsivo del protagonista).

Nelle necessarie rifiniture alla pagina scritta da Fabio Volo, si perde però qualcosa di confidenziale e ironico che approfondiva il sentimento, dei pensieri slegati o impacciati che pesavano sul coinvolgimento. Il film fugge a ragione l'incedere stucchevole e desueto, semplificando a tratti la via, sfiorando l'arguzia degli scambi verbali che connota poco l'onestà di fondo. New York, trattata con piacevole cautela dal regista, diventa il posto in cui si corre il rischio (normalizzato) di essere sciocchi e innamorati. Dove quest'ultimo andava appesantito delle incaute follie d'amore, dei desideri confusi di coppia, di un'immaginazione giocosa più personale, andava invece smussato e contaminato il carico di indifferenza milanese.

Non meno irrazionale e sfumato, anche se moderno, il romanticismo ha molte strade e poche misure. Per chi ne ha paura il volo newyorkese può essere una buona partenza.

martedì 29 novembre 2011

1921 - Il mistero di Rookford, la recensione del film


Nell'Inghilterra dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, Florence Cathcart ha una missione: smascherare i finti medium e spiritisti che, approfittando delle gravi perdite del paese, nutrono di finte illusioni le persone colpite da lutti. La sua fama di acchiappafantasmi le procura una chiamata da Rookford, un collegio apparentemente infestato dallo spirito di un bambino morto di morte violenta. Decisa a dare una spiegazione razionale al fenomeno, Florence si trova coinvolta in prima persona nella inquietante vicenda.
1921. Il mistero di Rookford, debutto alla regia dello sceneggiatore Nick Murphy, è una classica ghost-story inglese che riecheggia nei temi e nell'ambientazione "Giro di vite" di Henry James e i film che ne sono stati tratti. Seguendo la tradizione del genere, l'autore è più attento alle atmosfere che alle scene spaventose (che pure non mancano). Tra i meriti del film l'ottima performance della brava e bella Rebecca Hall, supportata adeguatamente da Dominic West e Imelda Staunton.

E' una tradizione gloriosa, nel cinema britannico, quella delle ghost-stories. In fondo, sono stati proprio gli inglesi a inventare il genere, o almeno a codificarlo, a partire dagli scritti di Montague Rhodes James per arrivare al capolavoro del suo quasi omonimo, Henry James, quel Giro di vite a cui sembra impossibile non fare riferimento ogni volta che si affronta una storia di fantasmi. E di sicuro Nick Murphy e il suo cosceneggiatore Stephen Wolk l'hanno avuta ben presente nello scrivere 1921. Il mistero di Rookford. Nel copione originale la storia era infatti ambientata in epoca vittoriana, ma proprio per non riecheggiare troppo da vicino i suoi modelli, gli autori l'hanno spostata al periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale.
Gli ingredienti sono quelli giusti: una casa – in questo caso una scuola – enorme e minacciosa circondata da boschi, una presenza misteriosa, un eroe (eroina in questo caso) scettico, e un'ambiguità di fondo che pervade tutta la vicenda e avvolge anche i personaggi umani.
Ci sono anche echi di The Orphanage e The Others, in questo film, a dimostrare forse la difficoltà di raccontare in modo veramente originale una storia di fantasmi (impresa a parer nostro riuscita a un altro Murphy, Ryan, con la sua serie metafilmica American Horror Story). Qui sta a parer nostro il limite principale del film: nonostante la confezione egregia e le ottime interpretazioni – su tutti Rebecca Hall e Imelda Staunton – non riesce a stupirci e a sorprenderci come vorrebbe. Dopo una prima parte in cui la protagonista ci viene presentata nell'esercizio delle sue razionali funzioni, il disvelamento successivo attutisce l'orrore della situazione, per rivelare che alla base di tutto c'è una dimostrazione estrema di amore famigliare, che tocca i toni del melò. Il film è costruito perfettamente, come un meccanismo a orologeria, in un gioco di incastri e di indizi successivi attraverso i quali lo spettatore più addentro al genere può arrivare alla “verità”, come accade in molti whodunit, sia pure non d'impianto soprannaturale. La casa di bambole, fondamentale nel racconto, ne riflette la struttura a scatole cinesi, a dimostrazione della capacità narrativa degli autori. Ma paradossalmente è proprio questa sapienza nel creare il meccanismo della suspense - a parte qualche incomprensibile sbavatura, come il personaggio del giardiniere – a suscitare nel pubblico aspettative, quasi impossibili da soddisfare.

1921. Il mistero di Rookford non ci colpisce dunque per il climax, ma ne apprezziamo soprattutto le atmosfere, la suggestiva fotografia e la performance di Rebecca Hall, un'attrice in grado di dare corpo e anima al personaggio di una donna in apparenza liberata, in realtà inconsapevole prigioniera di quello contro cui combatte.

Midnight in Paris - la recensione del film di Woody Allen

Woody (e noi) e la nostalgia dei tempi andati. Quelli che non abbiamo mai vissuto, che sono stati mitici e che mitizziamo ancor di più per non averli toccati con mani, occhi, cuore.
Midnight in Paris rappresenta uno scarto netto rispetto ai ragionamenti portati avanti da Allen nei suoi ultimi film: quelli sull'amore, la coppia, la vita. Le sue difficoltà e le sue illusioni. Perché Midnight in Paris non è semplicemente la storia di un uomo che, alle soglie del matrimonio, nella Parigi che ha sempre amato, vede le sue crisi esistenziali esplodere per via dell'incontro con un'altra donna.

Recuperando la dimensione immaginifica e sognante di opere come La rosa purpurea del Cairo e similari, Allen fa del Gil ottimamente interpretato da Owen Wilson - che (non) è l’ennesima incarnazione del suo autore - un uomo che sogna un passato, quello della Parigi degli anni Venti, e che ne viene letteralmente rapito nel corso di una peregrinazione notturna, allo scoccare della mezzanotte. E allora Gil abbandona il suo presente e finisce a una festa con Scott Fitzgerald e Zelda, a bere con Hemingway, a far leggere il suo tribolato romanzo a Gertrude Stein, a innamorarsi della musa di Picasso e a disquisire della paradossale situazione che vive (?) con i surrealisti Dalì, Man Ray e Buñuel. E che, così facendo, saltando avanti e indietro nel tempo, realizza gradualmente tutte le insoddisfazioni professionali e sentimentali del suo presente.

Ma. C’è un ma. Perché se nell'ultimo, deludentissimo Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, Allen parlava in maniera triste e senescente di come abbandonarsi alle illusioni fosse l'unico, seppur fallimentare, modo per vivere meglio, qui il regista da un film all'anno recupera uno smalto da tempo era stato opacizzato da una patina di stanchezza e disillusione. Con Midnight in Paris, infatti, Allen torna a ragionare con grande lucidità e intelligenza sul senso della nostalgia e dell'illusione: da un lato continuando ad esaltare il sogno romantico, la (momentanea) fuga fantastica, come necessario carburante propulsivo del vivere, dall'altro rimarcando come il confronto col presente sia non solo necessario, ma inevitabile.
Fondamentale.

Nella Parigi degli anni Venti Gil trova tutto quel che desidera, e per questo nei suoi ritorni alla realtà trova la forza e il coraggio per vedere quel che negava: un rapporto insoddisfacente, un tradimento chiaro ma ignorato, il suo progressivo castrarsi nel nome di un pragmatismo che non fa affatto rima con realismo.
Allen però è lucido, e sa bene realismo non è nemmeno abbandonarsi a un sogno che prima o poi si trasformerà in una nuova spirale d'insoddisfazione, perché sognare e basta è una fuga vigliacca di quelle che Hemingway non perdonerebbe. Realismo è il coraggio che Gil ha nel non seguire il sogno del suo sogno, la splendida Adriana di Marion Cotillard, che come lui mitizza un altro âge d'or che non ha mai vissuto, e alla quale non riesce a rinunciare quando la abbraccia.
Realismo è aver voglia di sognare e avere il coraggio di portare il sogno nel presente, nella vita vera. Di capire che se una donna è sbagliata, e un'altra è solo utopia, ce ne deve essere una terza che è giusta, che condivide i nostri sogni ma che sogno non è. Di vivere la vita con idealismo, ma senza velleitarismi.

Nel suo film, Allen fa dire a Gertrude Stein che l'artista non è colui che fugge, ma colui che con la sua opera cerca di dare senso e speranza di fronte all'insensatezza dell'esistenza.
Non occorre aggiungere molto. Forse solo che la classe, l'arguzia, l’umorismo, il sentimento e persino la politica (quella spicciola e quella esistenziale, ma pesantissima, considerati i tempi che viviamo) che Allen mette dentro la declinazione in film di questo concetto non sono cosa di tutti i giorni.

venerdì 25 novembre 2011

Happy Feet 2, la recensione del film

 
In Happy Feet 2 il pinguino Mambo è diventato papà, ma suo figlio Erik non è meno complessato di lui quando aveva la sua età: restìo alla danza, parte alla scoperta di se stesso e del mondo proprio quando i Pinguini Imperatori vengono imprigionati dallo scioglimento dei ghiacci. Sulla strada, in compagnia di papà Mambo, incontrerà tra gli altri il pinguino volante Sven e il buon vecchio esuberante Ramón.
Cinque anni fa il primo Happy Feet conquistò un grande successo al botteghino, assicurandosi persino l'Oscar come miglior film d'animazione. George Miller, più noto come creatore di Mad Max, prosegue la storia riproponendo i tratti distintivi della sua visione personale del cartoon.
Torna qui la chiave fotorealistica delle immagini, sia nel design dei personaggi sia nelle ambientazioni, portata alle estreme conseguenze quando appaiono alcuni umani ripresi in live-action. In contrasto, i pinguini continuano a esibirsi in rivisitazioni di celebri hit pop e non (la migliore è una spiazzante citazione della Tosca pucciniana), e l'inno animalista nell'estetica nasconde al suo interno un'umanizzazione caratteriale potente del suo variegato cast. Che tale contrasto sia il vero punto nevralgico sul quale si danno battaglia detrattori e amanti della saga?

Non cresciuto con la matita in mano, Miller vede forse il mondo di Happy Feet come un'estensione di quel cinema familistico dal vero con animali, da lui portato sullo schermo come produttore prima e regista poi in Babe, maialino coraggioso e Babe va in città.
Lo stile sovraccarico del film è di certo più affine all'entusiasmo in performance capture dello Spielberg di Tintin o del Zemeckis di A Christmas Carol, piuttosto che alla tradizione di rivali diretti come Pixar o DreamWorks Animation. Non per niente, regista delle animazioni è Rob Coleman, secondo occhio di Lucas per la nuova trilogia di Star Wars.
Miller agita la cinepresa virtuale inseguendo una spettacolarità da otto volante: ironia della sorte, dopo i discorsi sulle potenzialità sottili del 3D, ancora una volta la stereoscopia convince sul serio in casi come questi, quando si esagera.
Spremendo la fantasia improvvisativa del cast vocale originale all-star (Elijah Wood, Pink, Hank Azaria, Robin Williams, Brad Pitt, Matt Damon, Common), Miller non si fa problemi nel divagare e diluire la vicenda portante con siparietti gigioneschi su cui gli animatori, nei limiti dello stile appunto fotorealistico, non possono però sbizzarrirsi più di tanto.
Lo strano risultato appare quindi non tanto virtuosistico quanto esagitato, complice una versione italiana che tenta di adattare testi inadattabili, nonostante l'impegno encomiabile di Beppe Fiorello, Linus, Nicola Savino, Nathalie, Massimo Lopez, Pierfrancesco Favino e un ottimo Gigi Proietti.
I figli gradiranno i duetti dei krill o si riconosceranno nella facile dolcezza di alcune situazioni, ma gli adulti commossi da Up! rimpiangeranno forse chi si ricorda di parlare anche a loro.

Real Steel - la recensione del film con Hugh Jackman
Nel Sud degli Stati Uniti il mondo delle feste di paese e dei rodeo è stato sostituito con i combattimenti fra robot. Niente più tori, anche i vaccari (o nella variante più cinematografica e chic: i cowboy) sembrano più impegnati a fare da allibratori e organizzatori di incontri fra pezzi di metallo piuttosto che sporcarsi le mani fra letame e corna. Siamo nel 2020, non troppo nel futuro, i telefonini sono sempre touchscreen, ma trasparenti, in modo che risalti meglio il logo del produttore. Sembra tutto uguale se non che il circenses è cambiato, il pubblico non si divertiva più a vedere uomini che si picchiavano, niente più pugilato. Piuttosto la violenza virtuale fra robot, nell’era dei videogiochi. Ma ad essere reali sono i sentimenti e le emozioni che Real Steel vuole suscitare. Figlio di tanti padri, magari alcuni illegittimi. È liberamente tratto da un racconto del mago della fantascienza 'vicina' e con anima Richard Matheson (quello di Io sono leggenda), è diretto dallo Shawn Levy esperto di effetti speciali per famiglie (vedi Una notte al museo). Ma nel rapporto fra un ragazzino e il suo robot, sembra forte l'impronta in Real Steel di uno dei suoi produttori esecutivi: Steven Spielberg.
Il film è la storia di un padre cinico e disilluso che ha abbandonato e non vuole sentir parlare del figlio, arrivando a venderlo, salvo poi vivere una parabola di redenzione che passerà attraverso l'esorcizzazione della sua carriera promettente ma sfortunata di pugile professionista attraverso un robot di vecchia generazione, arruginito e improbabile Davide. Un film che ripropone la solita sorpresa dell'underdog, dello sfavorito, che nella terra delle opportunità lotta per il suo sogno americano. Un Rocky in salsa uomo/robot, dopo Warrior e nel momento in cui si festeggiano i 35 anni dello stallone italiano. (A vincere è sicuramente anche il canale sportivo (Disney) ESPN che è ben presente anche qui).

Il padre che ha abbandonato il figlio non può ormai più insegnargli a camminare, allora cercherà di insegnare i movimenti della boxe al suo amato piccolo robot pugile. Qui il rito dell'allenamento non si compie sulle scale di Philadelphia, ma in una piazzola di sosta sperduta nella provincia, sempre con felpa e cappuccio di ordinanza, ma con l'obiettivo più difficile: quello di rendere umano il suo campione, di farlo trionfare contro la tecnologia esasperata dei robot di lusso, con l'esempio della grande boxe in bianco e nero, quella di Alì o di Frazier. Il cuore in fondo ce l'hanno gli uomini e non i super robot, anche se si chiamano Zeus.

Il ragazzo è l'ennesimo talento precoce sbalorditivo, si chiama Dakota Goyo e ne risentiremo parlare, crisi puberale permettendo. Un ragazzino vintage, di una maturità candida e precoce, che ama i robot vecchi e poco tecnologici e va in giro con la maglietta dei Van Halen (ma qui sospettiamo lo zampino di un altro grande personaggio della California di fine anni 70).

In una ambientazione, riuscita, poco futuristica, spesso di giorno e in un sud un po' western, il film è in realta profondamente classico, divertente e piacevole, non cerca niente di nuovo né si perde qualche scivolata retorica qua e là, ma in fondo ci ricorda come lottare vale la pena davvero se il premio finale sono un figlio mai conosciuto e una 'adriana' affascinante come Evangeline Lilly.

lunedì 21 novembre 2011

Anche se è amore non si vede - la recensione

Una delle ragioni per cui tanto ci erano piaciuti i film di Ficarra e Picone, in particolare Il 7 e l'8 e La matassa, era legata alla capacità dei due comici di parlare con disinvoltura la lingua del cinema. Pur affidandosi a lunghe tirate verbali, tuttavia sempre ritmate da un continuo gioco di botta e risposta, la coppia palermitana si era assestata su una comicità di situazione mossa e scoppiettante, fatta di inseguimenti e di gag nel più puro stile slapstick e coadiuvata da una mimica facciale (soprattutto nel caso di Ficarra) sorprendente. Con Anche è è amore non si vede, il simpatico duo ha voluto – giustamente – cambiare genere e argomento, tentando, forse per adeguarsi alla moda corrente, la commedia sentimentale. L'esperimento, che pur si regge su una sceneggiatura scritta insieme all'esperto Francesco Bruni, però non è riuscito: per una serie di problemi legati alla storia, ai toni e ai personaggi secondari.

Cercando di raccontare le stonature delle relazioni sentimentali, e cioè la noia che può subentrare all'entusiasmo iniziale, la difficoltà di accorgersi di chi ci ama da sempre, le conquste impossibili e soprattutto l'ossessione di alcuni innamorati per gli anniversari e i regali sdolcinati, Ficarra e Picone hanno indubbiamente gettato le basi per una buona pochade, una commedia degli equivoci più francese o americana, forse, che italiana. Una volta introdotte le varie situazioni, però, si sono come fermati a osservarle (o meglio a osservarsi), compiaciuti dalle loro battute incalzanti e da teatrini verbali che risultano sì irresistibili, ma che da soli non bastano a mandare avanti un film.
Mostrare per esempio Valentino che subissa di cuoricini un'Ambra Angiolini arcistufa e determinata alla fuga, può essere divertente per due o tre scene, ma se alla ripetizione non fa da contraltare un esito imprevisto degli avvenimenti, anche le aspettative dello spettatore meno esigente vengono deluse. Anche il personaggio di Diane Fleri, che si scopre invaghita di Ficarra dopo anni di amicizia, non presenta nulla di originale, perché fin dal primo fotogramma del film sappiamo che in qualche modo riuscirà a colpire al cuore l'uomo dei suoi desideri. Perfino l'utilizzo di un coro, che commenta le vicissitudini di Salvo e Valentino e reagisce e agisce secondo schemi ben noti - per esempio con viglili urbani che fermano il traffico per solidarietà a chi soffre – non ha nulla di nuovo.

Quello che infine manca in Anche se è amore non si vede, è quel minimo di cattiveria che solitamente si accompagna alla commedia.
Ermigrando dalla Sicilia a Torino e introducento il personaggio di un americano che critica costantemente  l'Italia, Ficarra e Picone avrebbero potuto essere un po' più duri e mettere in bocca ai loro personaggi ciò che realmente pensano del malcostume nazionale. "Ma questo sarebbe un altro film" – ci risponderebbero, se qualcuno li mettesse al corrente delle nostre perplessità. "La satira e la commedia sociale non ci interessavano" – direbbero. D'accordo – risponderemmo - ma allora ridateci imprevedibilità, corse funamboliche e nonsense. Ridateci anche le vostre perle di saggezza sicula, che quando fanno capolino in Anche se è amore non si vede, ci fanno dimenticare per un attimo luoghi comuni e prevedibilità.
Aspettiamo fiduciosi il prossimo film, insomma, convinti che questo sia stato solo un piccolo incidente di percorso.

Il buono, il matto, il cattivo - la recensione

In una Manciuria degli anni Quaranta, parzialmente occupata dai Giapponesi e non ancora cinese, una misteriosa mappa del tesoro fa gola a molti. Vi s'imbatte per caso su un treno il bandito folle e creativo Tae-goo (il "matto"), inseguito dal cacciatore di taglie Do-won (il "buono"). Per sventura di Tae-goo, il micidiale killer Chang-Yi il "cattivo") e la sua banda avevano ricevuto l'incarico di rubare la stessa mappa. Tutto questo, insieme alla partecipazione di improbabili banditi cinesi e dell'esercito giapponese, viene cucinato dal regista coreano Kim Jee-woon in un trasparente omaggio a Sergio Leone, ma non solo.

Tra le qualità migliori di Il buono, il matto, il cattivo c'è di sicuro la regia: abituato a non fossilizzarsi sui generi, Jee-woon è passato dall'horror di Two Sisters al noir alla John Woo di Bittersweet Life. L'incipit del film con l'assalto al treno sveglia lo spettatore occidentale con un dinamismo visivo potente e trascinante. Seguire l'azione alle spalle di un personaggio con occasionali zoomate nella sua stessa direzione di marcia fa riflettere: in tempi in cui si discute di 3D, i mezzi formali basilari della ripresa classica bastano ancora a conferire un senso di vertigine e profondità. Altrettanto degno di nota il prefinale con un inseguimento titanico in pieno deserto, accompagnato dalla versione strumentale di "Don't Let Me Be Misunderstood", e nella sua assurdità più memore dei Blues Brothers che di Leone. O anche, considerando la pessima mira dei cattivi, memore del western pre-spaghetti, zona John Wayne.

Il problema è semmai che questi momenti memorabili comporranno una quarantina di minuti del film, che dura oltre due ore. Se infatti il gusto ipercoreografico dell'azione seduce, in mezzo c'è la narrazione, affidata a uno spirito picaresco e a uno humor ingenui e sopra le righe: il "matto" del bravo Kang-Ho Song è un po' Eli Wallach, un po' Sammo Hung nei film di Jackie Chan. E Byung-hun Lee, già interprete del diverso protagonista di Bittersweet Life, ha un'elasticità che di certo non ricorda Lee Van Cleef.
La contaminazione e lo scherzo possono diventare un boomerang, quando il film ha bisogno di recuperare l'empatia con i protagonisti sin troppo urlati e bidimensionali, o persino di inserire note storiche e tragiche. Il cocktail stridente e schizofrenico di umorismo demenziale e sacrificio sarà forse una cifra di questo tipo di cinematografia, ma appare anche piuttosto lontano dall'ironia epica di Leone, a dispetto delle risapute ispirazioni orientali di quest'ultimo. 

venerdì 18 novembre 2011

La recensione di The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1


Tutto il sangue risparmiato finora è servito a Bill Condon. Tutto il romanticismo smaccato e iridescente seminato fin qui, viene sublimato in un abito bianco. Tutto il sesso inesploso, esploderà con prudenza. Per questo Edward e Bella vi invitano cortesemente al loro matrimonio e a quanto segue.

Si rompe l'alba entrano le tenebre, per la prima parte della conclusione di Twilight. Una saga piena di accorgimenti ai lettori e all'ideatrice della love story, una saga affascinante in potenza e contemplativa in atto. Una storia cartacea di amore (quasi) impossibile, dove l'evoluzione drammatica avviene con fretta senza che questo comprometta l'interesse e la dedizione dei fan. Dove la natura dannata e un po' glam di un vampiro (Robert Pattinson) vorrebbe unirsi per sempre alla bellezza umana, e viceversa. Chi arriva a Breaking Dawn parte 1 ha già vissuto il primo incontro al college, l'ingenua inquietudine e dilatata indecisione di due amanti, la trasformazione fisica (e addominale) di uomini-lupo che si alleano con i vampiri per proteggere a triangolo la stessa Bella.

Chi arriva a Breaking Dawn è Bill Condon, che esordisce nella serie e sarà l'unico a poterne dirigere due capitoli (la seconda parte di questo), tenendo stretto il vantaggio di una visione d'insieme (lunga i tre precedenti) e il privilegio di un gran finale sospirato ed eccitante. Il suo film è squilibrato, viziato e certamente migliore degli altri. Efficace nel registrare forse l'unico apprezzabile scarto della storia, il passaggio, scelto, ad un'età adulta con tanto di gravidanza fuori da comune.
Il regista entra con partecipazione nel mood di Twilight, tenendo confinato qualsiasi stravolgimento o innalzamento narrativo, ma con innesti di personalità. La dicotomia luce-ombra connaturata in questa storia a sangue misto, e finora piuttosto ingrigita dalla paura e dai sospiri, non è mai stata così evidente. Perché il film è diviso in due parti e perché Bill mostra forse il romanzo più sfiancante della Meyer facendogli acquisire ritmo e incertezza. Le prove generali di morte che Bella aveva tentato in New Moon qui, quasi quasi le riescono, ma non prima di aver finalmente sposato il suo corteggiatore romantico, pudico e fuori dal tempo. La cerimonia regale e quella luna di miele brasiliana in cui finalmente il reticente vampiro cede al piacere del corpo di lei. Si spera (coscienti dell'incombenza dei divieti) nell'abbandono del puritano e moraleggiante a favore del vero, ma non si può cambiare ora l'imprinting di una storia, per dirla alla Meyer.

Quel che succede è una gravidanza a cui Bella non vuole rinunciare, che la mette in una posizione felicemente non incerta, e che traghetta il film verso l’horror, un po' splatter, ancora sconosciuto alla saga. Mentre ben più confidenziale è la gelosa alleanza tra Edward e Jacob, qui amplificata e asservita a un parto cupo e minaccioso, in cui Kristen Stewart si prosciuga. Dal melodramma sentimentale all'impellente sacrificio di sé (insito in una passione pericolosa e coraggiosa, ma spesso semplificata), la mano di Bill è netta ma non pesante, e il morso sanguigno dell'uomo freddo sull'amata lo si attende, paradossalmente, come un po' di sano colore sul suo volto.

Il voto per Breaking Dawn è collegiale e forse indulgente, per una saga che poteva finire con un matrimonio e invece continua, per Bill che ci ha messo del suo, per qualche sorriso piacevolmente non involontario e per tutti coloro che mai rinunceranno al gran finale.

mercoledì 16 novembre 2011

Scialla! - la recensione del film di Francesco Bruni


Ha capito tutto Francesco Bruni. Ha capito che i giovani sono dei gran risparmiatori e c'è assoluto bisogno di chi invece le parole continua a dirle per esteso, continua a pensarle intelligenti e a scriverle con cura e sorriso. Tutt'altro che "sciallato" è il primo film di uno sceneggiatore super professionista che lavorando con Virzì (ma anche per Calopresti e Montalbano) ha compilato grandi storie. Nel confidente mondo della commedia Bruni ha inserito anche la sua: padre e figlio, Bruno e Luca, che non sanno di essere parenti, che non sembrano avere nulla in comune (figurati il dialetto) se non il loro sottinteso imperativo di essere lasciati in pace.

Poi la circostanza, l'evento (parte la mamma di Luca), li trasforma in coinquilini, e tutto cambia. Il professore (Fabrizio Bentivoglio) demotivato, flemmatico, che scrive biografie altrui e traduce al posto degli studenti a cui dà ripetizioni, si misura con la mancanza di prospettive di Luca (Filippo Scicchitano), e si spaventa tanto da prendere il coraggio per diventare un punto di riferimento, per "accollarsi" un po' al figlio.

Compatto, ironico e reale nei contenuti, leggero nell'assorbimento, malinconico e divertente nello svolgimento. Parlare delle situazioni delineate, delle occasioni centrate, dei semplici paradossi che rendono vitale un'esistenza, è un dispetto a chi deve vederlo. Francesco Bruni sa guardare le persone, che siano disponibili, timide, in fuga o molto silenziose, che siano professori o pornodive convertite alla vita "signorile" (come nel caso di Barbara Bobulova), Francesco non li giudica e non li "carica". Scialla! è un esordio di pancia col paracadute. Rallegrate tutte le sfumature di questi personaggi, il paracadute sono gli innesti di popolarità e i ragazzi sconclusionati che ti riconciliano con il mondo. Eppure l'esperto cantastorie, pur non invadendo territori sconosciuti, tratteggia come inesplorate le "vecchie" pieghe caratteriali, semplicemente riconsegnando un'ingenua autenticità. Luca ha la parte gentile del coatto romano, quella che appoggia la mitologia urbana, Bruno ha la parte tenera dell'asocialità. Entrambi, in modi diversi, devono saltare l'ostacolo.

Dove il ragazzo risparmia (con spasso) i vocaboli e pure le forze, il professore ne usa tantissime per rimanere in quella invisibilità che non vede l'ora di essere notata. Considerando i prof. di Bruni che hanno preceduto Bentivoglio (il sopito dall'erba Mastandrea, il frustrato Castellitto e il naif Silvio Orlando), l'affresco ora è quasi completo. Così, sulla vespa o sul divano a ripassare epica gli interpreti della contemporaneità (giovani o meno giovani) trovano dolce compensazione e si rasserenano. "Sciallarsi" è un traguardo di livello, non una via di fuga.

Anonymous - la recensione

Londra, fine del 1500. Comincia a far furore il teatro di William Shakespeare, ma l'autore che avrebbe segnato la cultura occidentale per secoli a venire è in realtà un impostore. Teatrante semianalfabeta, è solo il truffaldino prestanome del Conte di Oxford Edward De Vere, che aveva però pensato come copertura al letterato commediografo Ben Jonson. Giunto alla mezza età, Edward sfoga in incognito i suoi istinti letterari sempre castrati dalla famiglia puritana, con la sotterranea intenzione di rivoltare il popolo contro i consiglieri reali Cecil tramite il teatro, prima che si adoperino per l'arrivo sul trono d'Inghilterra del re di Scozia Giacomo I alla morte di Elisabetta I.

Roland Emmerich ha iniziato a pensare a questo film otto anni fa, quando dagli attori shakespeariani Derek Jacobi e Mark Rylance è stato pubblicato il manifesto della Shakespeare Authorship Coalition: l'atto si propone di far cadere l'ipocrisia tradizionalista sull'insindacabile paternità delle opere del Bardo. I dubbi ci sono, insieme a teorie alternative, una delle quali si appella appunto alla figura realmente esistita di De Vere, portato sullo schermo da un Rhys Ifans insolitamente misurato e drammatico.
C'è dunque tanto lavoro dietro la sceneggiatura di John Orloff, rispettata da un Emmerich quasi irriconoscibile: messo da parte il genere sempre proficuo del disaster-movie, il regista tedesco miscela un interessante thriller politico con il melodramma, concedendosi effetti visivi solo funzionali, per i pochi totali della Londra tardoelisabettiana.

Il film non è esente da qualche scivolata sopra le righe, specialmente nelle scene tra i giovani Edward (Jamie Cambpell Bower) ed Elisabetta I (Joely Richardson), ma a fin di bene, cercando di ammorbidire con dinamiche familiari e sentimentali il più pesante e interessante intreccio politico dedicato alla fine dell'epoca Tudor.
A Emmerich la sortita in costume riesce anche grazie a un cast indovinato, con Vanessa Redgrave interprete vagamente stralunata di un'inedita Elisabetta I negli ultimi anni, David Thewlis nei panni di William Cecil, presenza infida e complottista, e lo stesso Ifans: tutti ben dosati in un'opera sincera che potrebbe insinuare qualche dubbio nei detrattori del regista.
Non siamo di fronte a un risultato geniale, ma a un sentito tentativo di proporre al grande pubblico argomenti alti tramite un mezzo popolare come il cinema. In fondo, più di quattro secoli or sono Shakespeare (o chi per lui) faceva lo stesso con il teatro, spettacolo per le masse.

domenica 13 novembre 2011

I soliti idioti - la recensione del film da oggi al cinema


Anche scrivere di certi film, a volte, diventa più che altro un mettere nero su bianco, ciò che si pensa, in senso più ampio, della propria e altrui capacità di discernimento. E' quello che sta evidentemente succedendo a chi si trova alle prese con il passaggio della sketch-comedy I soliti idioti - divenuto a tutti gli effetti ulteriore fenomeno sociale - dal piccolo al grande schermo. L'arrivo in sala del film infatti, ha fatto sì che si conclamassero perplessità e interrogativi, non strettamente cinematografici (forse latenti sin dall'inizio della serie Tv?), che hanno amplificato questo che, oggi su quotidiani on-line e cartacei, sembra essere diventato un altro "indicatore" culturale.
I personaggi inventati e animati, con trucco e travestimenti studiatissimi, da Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio, sono caricature portate all'estremo, che fanno sbellicare sempre più italiani, giovani o meno che siano. Sono ultra volgari, scorretti all'inverosimile, petulanti con i loro tormentoni, quasi del tutto privi di spessore, ma fanno tanto ridere.
Figure grossolane, che sotto una lente deformante e con i colpi d'accetta dell'approssimazione, cercano di rappresentare più luoghi comuni possibili della nostra società, e che, ancora, fanno tanto ridere.
E' questo il punto: la risata resta un'arma a doppio taglio, per chi ride, ma soprattutto per chi fa ridere. Lo spettro della risata gratuita e superficiale, per molti, sembra sempre minaccioso, una nebulosa che non rende chiara la consapevolezza critica dello spettatore, e le buone intenzioni dell'autore. Bisogna "fare a fidarsi", confidando in quella capacità di discernimento, di cui scrivevo sopra, per cui, non necessariamente divertirsi con l'immediata e spicciola comicità, sia segno dell'ottundersi del pensiero intelligente.

I due ex-vj colgono al volo il loro turno per passare il varco, aperto ormai da anni, tra televisione e cinema. Si fanno accompagnare, come Checco Zalone, da Pietro Valsecchi; non sono i primi, né tantomeno gli ultimi.
La loro, stavolta, è stata una scelta di unità narrativa, con quello che è un accenno, piuttosto debole, di sceneggiatura, che si svincola dalla consueta suddivisione in episodi.
Il bandolo della matassa è affidato alla coppia di personaggi "Father & Son", Ruggero e Gianluca, che tra Jaguar, ambulanze, mignotte e trivialità di diverso grado, snocciolano il repertorio, che lascia il posto però anche ai "cliccatissimi" siparietti di altri personaggi della serie.
Ci sono i gay Fabio e Fabio (uno ammutolito dal fastidio e dal telefonino, l'altro ossessionato dall'omofobia e da un'improbabile gravidanza); il metallaro Sebastiano, che non riuscirà mai a consegnare il suo pacco, ma ha la pazienza di un santo; la coppia iper borghese Marialuce e Gianpietro, in crisi, ma perfettamente "abbinati" e stavolta vestiti da tennis. Tutti sono diretti al matrimonio, clamorosamente annullato, tra Gianluca e quella "busta de piscio" (per dirla con Ruggero) della povera fidanzata.
Peccato però, che i personaggi di contorno, presenti sino ad un certo punto del film, spariscano poi, come dimenticati, in un evidente errore di scrittura.
Si saluta il Wes Anderson dei Tenenbaum, con personaggi che indossano sempre gli stessi abiti, ed anche il Brian De Palma di Carlito's Way, con il cameo di Gian Marco Tognazzi, nei panni di un avvocato davvero somigliante a quello interpretato da Sean Penn.
Ma il respiro del film resta sempre un po' corto, ed era prevedibile, vista la diversa natura dei tempi narrativi di sketch e cinema, il rischio è infatti, di riempire il vuoto con la ripetizione.

Se volete imparare nuove e pittoresche formule, per atterrire persone a voi non gradite, o se volete farvi la vostra idea su un film che potrebbe scatenare accesi dibattiti a cena, senza timore, fatevi sotto, è possibile che vi divertiate anche voi!

One Day – la recensione del film


Quando e cosa sia veramente il momento giusto, non è dato sapere. Sicuramente, per Emma e Dexter, il 15 luglio 1988 è il primo giorno del resto della loro vita. Quel singolo giorno diventa la finestra dalla quale affacciarsi su una storia che attraversa vent’anni, qualche città, ma un’unica strada possibile. One Day è il racconto intelligente e malinconico di un’alchimia tra due anime disordinate e profondamente uguali e di un legame destinato ad aspettare.

Quando nell’estate del 2010 iniziano le riprese, "Un giorno", il romanzo dello scrittore britannico David Nicholls da cui il film è tratto, è già un caso editoriale mondiale. I lettori più appassionati già si figurano seduti comodi al buio della sala con popcorn in una mano e kleenex nell’altra. Complice forse il (poco noto) percorso da attore e autore televisivo di Nicholls, il romanzo contiene già in sé un’immediata fame di visione, oltreché di lettura. Tutti, scorrendone le pagine, hanno immaginato Emma e Dexter su quella collina di Edimburgo o lungo i canali di Parigi, all’alba del giorno in cui avrebbero finalmente osservato le loro vite dal punto di vista più alto.

A raccogliere la sfida della trasposizione cinematografica è la regista danese Lone Scherfig che, reduce dalla felice collaborazione con Nick Hornby e dalle tre nomination agli Oscar per An Education, si trova stavolta a dirigere un adattamento firmato dallo scrittore del romanzo stesso. Quel David Nicholls che proprio Hornby, mesi prima, ha definito autore “di un capolavoro profondo, coinvolgente e irresistibile”.
Alcuni naturali cambiamenti esistono, ma affrontare la questione della fedeltà al romanzo sarebbe disonesto e in questo caso fuori luogo, visto anche che scrittore e sceneggiatore coincidono. Tanto vale però riconoscere che molta parte dell’immediata adesione emotiva di cui sopra, nel film sembra essersi persa. Quello che sulla carta risultava comunque un continuum naturale e organico, lo ritroviamo frantumato in piccoli sketches opportunamente preceduti da cartelli divisori con tanto di anno di riferimento.

Supportati dalla scelta azzeccatissima degli attori secondari (Patricia Clarkson sì, ma su tutti quel Rafe Spall che molti riconoscono come astro nascente del cinema britannico) Anne Hathaway e Jim Sturgess si rivelano protagonisti armoniosi di questo “Groundhog Day” di una non solo amicizia – non solo amore. Il problema è che lo sviluppo dei loro percorsi individuali non trova, sullo schermo, sufficiente spazio per respirare. Nell’arco di vent’anni li vediamo crescere, Emma e Dexter, ma è come se la successione a “episodi“ procedesse per difetto, spesso senza riuscire ad approfondire alcune sfumature fondamentali per l’evoluzione dei due personaggi. Complici anche i cambi di look e una colonna sonora fedele, più che attraverso una crescita, varchiamo abbastanza fedelmente un’epoca.

Emma e Dexter commuovono come l’incastro perfetto di due persone uguali, che possono darsi davvero solo qualcosa che già gli appartiene. Merito di tono, stile e atmosfere, One Day riesce comunque a restituire un carico emotivo coinvolgente e intimo, ma non del tutto compiuto. La chiusura della storia alla fine arriva, inflessibile, lasciando nell’aria la sensazione che avremmo potuto viverla ad un livello più profondo.

venerdì 11 novembre 2011

 

I primi della lista - la recensione

Prende le mosse da una storia realmente accaduta e la trasporta sul grande schermo, cercando, come insegnava Zavattini, di far sembrare la realtà un film: I primi della lista è una commedia agrodolce e toscanamente scanzonata da un lato, un film che mira a essere spaccato socio-politico di un ieri che assomiglia tanto all’oggi dall’altro.
La strampalata odissea dei tre protagonisti del film ricalca infatti in maniera fedele quella dei loro tre corrispettivi reali, sia nelle dinamiche che nei risvolti meno immediati. E Roan Johnson, che a dispetto del nome è pisano nella parlata e nei modi, è smaliziato a sufficienza per individuare e riproporre, vestiti di un nuovo assai vintage, gli elementi salienti dell’uno e dell’altro aspetto.
Un po’ Armata Bracaleone, un po’ Soliti ignoti, ecco allora che la paranoica avventura on the road del Tulli, del Gismondi e del Masi viene raccontata con una filologia estetica mai esasperata ma che passa anche da una fotografia virata all’ocra che fa tanto super8, con affetto e sarcasmo, e soprattutto con l’azzeccata intuizione di fare dei tre giovani il (bari)centro umano di un film che la politica la mette apparentemente solo sullo sfondo.

Un po’ incerto e statico per quanto riguarda i ritmi della regia, ma bravo nel complesso a tenere botta raccontando una storia dall’esito più che noto, Johnson ha trovato nei suoi tre protagonisti e nel loro affiatamento il valore aggiunto per sostenere il copione. Se gli esordienti Francesco Turbanti e Paolo Cioni (noi abbiamo preferito il secondo) colpiscono per spontaneità e simpatia, Claudio Santamaria mette la giusta dose di costruzione al personaggio più strutturato e complesso del film, quello del cantautore Pino Masi: motore delle vicende e cuore pulsante dei lati più sfumati e ideologici.
È il Masi, infatti, quello che per via di una soffiata sbagliata convinse gli altri due alla fuga da Pisa, nel timore di essere, loro giovani intellettuali e artisti, i “primi della lista” della repressione violenta e fascista che si sarebbe dovuta scatenare all’indomani di un colpo di stato imminente.
È il personaggio di Santamaria quello che incarna la contraddizione tra castroneria paranoide e un po' megalomane e consapevolezza reale dell’essere all’alba degli Anni di Piombo e della Strategia della Tensione. La contraddizione generazionale che getta luci e qualche ombra su tutto il film di Johnson.

Perché I primi della lista, in una tirata iniziale di uno studente in assemblea sui metodi della Grecia dei Colonnelli (“hanno iniziato col dire che magistratura e stampa eran tutti in mano alla sinistra”) e in quella finale dello stesso Masi (premonitrice, ma col senno di poi), non nega ma anzi sottolinea i legami ai tempi che stiamo vivendo.
Allora stupisce però, proprio per i tempi che stiamo vivendo e per l’età anagrafica e la formazione politica del regista, che nella sua parte iniziale I primi della lista sembri farsi beffe (in maniera vagamente acida e a scopi “spettacolari”) delle paure dei suoi protagonisti; e che nella seconda svolti bruscamente mostrando come quella “colossale cazzata”, se avvenuta qualche mese dopo, sarebbe stata assai più giustificata. Ma col senno di poi, appunto.
Troppo facile, ci sembra, legare l’oggi a quel periodo storico tanto controverso e tanto fascinoso, senza però porsi il problema di analizzare realmente i punti di contatto socio-politici che vengono tirati in ballo solo quando fa comodo. Per ridere o per pensare

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giovedì 10 novembre 2011

Immortals - la recensione del film da domani al cinema


I film sugli dei dell'Olimpo sono sempre stati divertenti, nel senso anglosassone di entertaining. E visto che sono tornati di moda, come hanno dimostrato Scontro tra Titani e Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo, aspettavamo con una certa curiosità la versione di Tarsem, autore finora di due soli, bellissimi film (The Cell e The Fall). Il problema principale in Immortals sta nel copione, scritto dai fratelli greco-americani Parlapanides, che provengono dalla scena indipendente.
Non sappiamo cosa sia successo sul set di questo film, ma è facile immaginarlo quando lo stesso press-book riporta la notizia che la versione finale della sceneggiatura è arrivata pochi giorni prima dell'inizio delle riprese: da un lato Gianni Nunnari e Mark Canton, decisi a bissare il successo di 300 ( e fare un dispetto al suo regista, bruciandogli la presentazione del nuovo Superman, Henry Cavill, qua al primo ruolo da protagonista) riproponendone le atmosfere e la violenza splatter; dall'altra il regista Tarsem che arriva con la sua cartellina piena di riproduzioni del Caravaggio e un'idea esclusivamente visiva del film.
Tira e molla, i produttori non ottengono esattamente quello che volevano, ma un singolare mix tra una quest fantasy, un film bellico e un torture porn, dipinto dall'occhio fantasioso e barocco di Tarsem, con un inevitabile sguardo all'estetica gay di Tom of Finland (forse qui più presente che altrove): corpi nudi in pose plastiche e pettorali in bella vista. Come gli amanti della mitologia sicuramente già sapranno, in Immortals Teseo combatte con un Minotauro che non è quello del labirinto e di Arianna e i Titani non sono 12 ma una legione sterminata, più simili ad orchetti ipercinetici che alle creature della leggenda. Da uno di essi prende il nome Iperione, il sovrano/serial killer rappresentato con animalesco fascino da Mickey Rourke.
Il riferimento citato esplicitamente dai realizzatori è Charles Manson, ed è indubbio che l'attore emani davvero puzza di zolfo: la presentazione del suo regno fa assomigliare la Sparta di 300 a Disneyland. Dalla presenza del Toro di Falaride perennemente acceso e “abitato” da vittime, ai corpi appesi e straziati come nel regno del colonnello Kurtz, al cielo nero che ricopre un mondo senza colore, una Mordor peggiore dell'originale. Più spietati degli spartani, i suoi seguaci indossano maschere brutali e portano sul volto sfregi che sono il segno degli artigli taurini. L'Iperione del film giustifica la sua ribellione agli dei con il fatto che loro hanno abbandonato i suoi cari “rapiti da severo morbo”, come si diceva un tempo. Ma è difficile immaginare tanta malvagità come frutto di qualche dolore: Mickey Rourke tratteggia in modo veramente geniale un sociopatico senza lati positivi e di assoluta verosimiglianza.
Nel film c'è di tutto, e si dibatte di tante cose, sia pure superficialmente: libero arbitrio, fede, lealtà, coraggio. Teseo è un eroe agnostico, mentre Iperione è decisamente ateo. Ma quando gli dei appaiono loro, sono costretti a ricredersi. E qui casca l'asino. Tarsem sceglie di rappresentare degli dei giovani e belli, tutti d'oro addobbati, arroccati in un Olimpo che sembra più triste e solitario del mondo sottostante. Ma gli attori chiamati ad interpretarli non riescono ad emanare nessun senso di regalità o carisma, a partire dallo Zeus di Luke Evans, che arriva al top della scala gerarchica (era Apollo in Scontro tra Titani). Non è nemmeno colpa loro: forse sarebbe stato meglio in questo caso ricorrere alla computer graphic per creare delle figure ultraterrene più imponenti e memorabili. Freida Pinto nel ruolo della sibilla Fedra ha un ruolo poco più che decorativo, come spesso avviene in questi film che sono un concentrato di testosterone.
Non si sa cosa manchi a Immortals per sorprendere o destare meraviglia nello spettatore: probabilmente non è nemmeno questione di budget, visto che riuscivano a farlo i monster-movies mitologici a bassissimo costo con le creature di Ray Harryhausen. Quanto a Henry Cavill, dopo aver constatato che possiede il physique du role dell'Uomo d'Acciaio, aspettiamo di vederlo alle prese con mostri e nemici moderni, prima di pronunciarci sulle sue altre qualità. Su una cosa gli autori non hanno risparmiato: sui mille sgradevoli modi per uccidere un essere umano o divino. Molti si divertiranno per le bizzarre trovate degli autori, e la lunga sequenza di mutilazioni, automutilazioni, decapitazioni e squartamenti che si moltiplicano nello scontro finale coi Titani, ma noi che siamo cresciuti alla scuola del “troppo stroppia”, avremmo preferito un uso del digitale più parsimonioso. Certo non ci siamo annoiati, ma ci resta il rimpianto di vedere il talento di Tarsem piegarsi alle ragioni di mercato ed emergere solo in pochi ispirati momenti. Scopriremo l'11 novembre, data di uscita contemporanea di Immortals in tutto il mondo, se i risultati al box- office premieranno Nunnari e Canton. A Tarsem, per rifarsi, resta comunque Mirror Mirror, suo quarto film, in cui passa dal mito greco alla fiaba di Biancaneve: un progetto che ci sembra maggiormente affine ai suoi interessi e più nelle sue corde.

Lezioni di cioccolato 2 - la recensione del film da domani al cinema


E' il modo più semplice per descriverla e probabilmente anche il meno figurato, ma le variazioni sul tema del cioccolato sono talmente insite in questa commedia da generare inevitabili accostamenti. Ecco perché la seconda lezione di cioccolato ha molte proprietà del bianco (qui protagonista): bello alla vista, buono al gusto pur senza l'accento amaro del nero fondente, apprezzato da molti, ma non ai livelli del parente puro e scuro, dolce molto più del suo parente, e allo stesso modo infinitamente decorativo.

Sorprendente, tenero e assai gradevole, l'esperimento del 2007 firmato da Claudio Cupellini vuole trovare ora con Alessio Maria Federici nuovi propositi e innesti (Nabiha Akkari, Vincenzo Salemme
Angela Finocchiaro), mantenendo le qualità raffinate e ottimiste del predecessore. Dietro e dentro la nuova famiglia "perugina" c'è ancora l'azienda dolciaria dei baci, sempre ben pensata in un plot placement di non facile risoluzione. Si parla certo di un sequel, perché alcune circostanze sono date per risolte e certe abitudini tornano con divertente prepotenza: Mattia il geometra (Luca Argentero) ha sviluppato una sana e versatile passione per il cioccolato, ma non la pratica con la stessa costanza che ha per (tutte) le donne, mentre la sua casuale amicizia con Kamal (Hassani Shapi) si mantiene bizzarra e sul filo dell'opportunismo. Il lavoro nero (in accenno da commedia) e l'incontro di civiltà di Lezioni di cioccolato qui cede il passo ad un duello tutto affettuoso. Dove infatti la tecnica dell'arte cioccolatiera non necessita più delle basi d'apprendimento, la sfida di Argentero si esprime nelle pazienti prove d'amore e nelle moltissime evoluzioni al cacao che servono a conquistare una bellezza egiziana.

Questa ragazza (Nabiha Akkari) dallo sguardo dolce e avvolgente è il buon motivo per far affiorare (in potenza) il tema dei nuovi italiani alle prese con i "vecchi" italiani, di alcune giovani generazioni di immigrati già perfettamente mescolate e virtuose. Se tale argomento tuttavia ha uno sbocco, è solo quello del cuore e della benevolenza. Di questa semplificazione, ad essere onesti, un film ben preparato non ne risente, ma un livello di complessità maggiore, anche di equivoco e romanticismo, l'avrebbe certo favorito. Fabio Bonficacci di nuovo alla scrittura è probabilmente meno ispirato ma non impigrito, la regia è orientata a dovere e il ritmo si mantiene senza scivolare. Consolidati e confidenti, Argentero e Hassani beneficiano della saggia e spontanea interpretazione di Salemme e Finocchiaro.

Ed ecco che si torna quindi sul gusto iniziale. Molto dolce e meno deciso del precedente, Lezioni di cioccolato 2 appaga la leggerezza, il sentimento e la vista, ma il guscio non fa crik crok.

IL DOMANI CHE VERRA'

USCITA CINEMA: 04/11/2011
REGIA: Stuart Beattie
SCENEGGIATURA: Stuart Beattie
ATTORI: Rachel Hurd-Wood, Lincoln Lewis, Caitlin Stasey, Deniz Akdeniz, Phoebe Tonkin, Chris Pang, Ashleigh Cummings, Andrew Ryan, Colin Friels
FOTOGRAFIA: Ben Nott
PRODUZIONE: Ambience Entertainment, Omnilab Media
DISTRIBUZIONE: Eagle Pictures
PAESE: Australia, USA 2011
GENERE: Azione, Drammatico, Avventura
DURATA: 103 Min
FORMATO: Colore
The Tomorrow Series: Il domani che Verrà è la storia di otto amici della scuola superiore di un paese rurale sulla costa, le cui vite sono improvvisamente e violentemente stravolte da una invasione che nessuno aveva previsto. Separati dalle loro famiglie e dagli amici, questi straordinari ragazzi devono imparare a sfuggire ad ostili forze militari, a combattere e a sopravvivere.

SEX LIST

USCITA CINEMA: 04/11/2011
REGIA: Mark Mylod
SCENEGGIATURA: Gabrielle Allan
ATTORI: Anna Faris, Chris Evans, Zachary Quinto, Ryan  Phillippe, Oliver Jackson-Cohen, Ari Graynor, Mike Vogel, Ivana Milicevic, Joel McHale, Andy Samberg, Chris Pratt, Eliza Coupe, Dave Annable, Heather Burns
FOTOGRAFIA: J. Michael Muro
MONTAGGIO: Julie Monroe
PRODUZIONE: Contrafilm, New Regency Pictures
DISTRIBUZIONE: 20th Century Fox
PAESE: USA 2011
GENERE: Commedia
DURATA: 107 Min
FORMATO: Colore
Una mattina la ventinovenne Delilah scopre che, secondo un'inchiesta, mediamente una donna americana nel corso della vita ha sei uomini. Lei, non solo è già a quota diciannove, ma è anche single. Decide allora che il ventesimo sarà il suo principe azzurro!

15/10/11

I Tre Moschettieri

USCITA CINEMA: 14/10/2011
REGIA: Paul W.S. Anderson
SCENEGGIATURA: Andrew Davies, Alex Litvak
ATTORI: Logan Lerman, Matthew Macfadyen, Ray Stevenson, Luke Evans, Milla Jovovich, Orlando Bloom, Christoph Waltz, Mads Mikkelsen, Juno Temple, James Corden, Gabriella Wilde, Freddie Foxx, Til Schweiger
FOTOGRAFIA: Glen MacPherson
MONTAGGIO: Alexander Berner
MUSICHE: Paul Haslinger
PRODUZIONE: Constantin Film, Impact Pictures
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
PAESE: Germania, Francia, Gran Bretagna, USA 2011
GENERE: Azione, Storico, Avventura
DURATA: 102 Min
FORMATO: Colore 2.35 : 1 3D
Sono conosciuti come Porthos, Athos e Aramis, tre combattenti d'elite che servono il Re di Francia come i suoi migliori moschettieri. Dopo aver scoperto una cospirazione per rovesciare il trono, i moschettieri si imbattono in un giovane aspirante eroe, D'Artagnan, e lo prendono sotto la loro ala protettiva. Insieme, i quattro affrontano una pericolosa missione per far luce sul complotto che minaccia la Corona, ma anche il futuro dell'Europa.