venerdì 9 dicembre 2011

The Artist - la recensione del film di Michel Hazanavicius

 
Era dai tempi de L'ultima follia di Mel Brooks, se non andiamo errati, che il cinema muto non arrivava sul grande schermo. Ma se quel film – godibilissimo - si iscriveva di diritto nel registro parodistico e farsesco tipico dell'autore, The Artist sembra nascere da una vera e propria necessità. Quello che colpisce immediatamente, vedendolo, sono la straordinaria passione, la cultura cinematografica e la cura per il dettaglio che lo animano e gli hanno dato vita contro tutto e tutti. Basterebbe questo a farcelo amare: non c'è alcuna presunzione in quest'impresa, ma la volontà di rendere omaggio a un cinema venerato, che ha formato generazione di registi e spettatori, fatto da autori europei con capitali del nuovo mondo in quella che diventerà la culla e la mecca della settima arte, Hollywoodland (come ancora recitava il celebre cartello sulle colline di Los Angeles). Un luogo che diventa fin da subito fabbrica di sogni, emozioni, vite alternative, che crea stelle e mostri, capace di accogliere a braccia aperte gli artisti in fuga dall'Europa in fiamme, ma al tempo stesso di trattare i suoi divi a contratto come polli di allevamento. Un luogo pieno di luci e ombre, reso alla perfezione dalla formula - muto + bianco e nero - scelta da Hazanavicius.
L'idea vincente del film dunque non è quella di prendere una forma antiquata per far recitare gli attori in modo esagerato e giocare a fare il cinema muto, ma quella di mandare volti, corpi e paesaggi in un viaggio a ritroso nella macchina del tempo, di trasformarli col trucco, le scene e i costumi per poi inserirli nelle vere location della storia (Peppy vive nella casa che fu di Mary Pickford!) con i veri oggetti di scena e la musica sul set. Poi basta chiedere agli interpreti una recitazione il più naturale possibile, e il gioco è (quasi) fatto.
Dalla geniale idea di velocizzare leggermente le riprese a quella di sfumare il bianco e nero in una gamma infinita di grigi, a seconda dello stato d'animo del protagonista, The Artist è un film talmente pieno di brillanti intuizioni da essere forse, in certi momenti, anche “troppo” perfetto.  Può essere questo l'unico difetto di una pellicola che riprende anche i generi del cinema classico hollywoodiano – non solo di quello muto - nella sua struttura narrativa: ecco il melò, la love-story, la caduta dopo l'irresistibile ascesa, il dramma, lo scintillante luccichio del musical. C'è davvero di tutto dentro The Artist: Quarto potere di Orson Wells (la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George), Viale del tramonto di Billy Wilder (la parabola della star che non si rassegna, accompagnato dal fedele autista che firma anche gli autografi per lui e gli resta accanto nella disgrazia) e – anche se è il richiamo più ovvio e forse  meno voluto – E' nata una stella di William Wellman e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen. Ma ci sono anche Lubitsch, Murnau, i film di King Vidor, i numeri di tip tap di una grande coppia danzante come Fred Astaire e Eleanor Powell.
E il protagonista, col fedele cagnolino che lo accompagna sempre, è un incrocio tra William Powell, il John Gilbert messo in crisi dal sonoro,  Douglas Fairbanks ed Errol Flynn: bello di una bellezza in apparenza inscalfibile dalla vita, il volto trasfigurato da un eterno, sfavillante sorriso, sempre pronto a giocare coi fan. Una star talmente convinta della propria invincibilità da rifiutarsi di cambiare, un uomo che preferisce assaporare fino in fondo la propria caduta in disgrazia invece di rimboccarsi le maniche, o di accettare l'amore disinteressato di una ragazza più giovane. A dargli corpo, fascino, sguardo, è un incredibile attore chiamato Jean Dujardin, che ha iniziato la propria carriera facendo il buffone nei vari Zelig d'oltralpe, e che dimostra qui un'espressività e un carisma assolutamente all'altezza dei suoi modelli. Lo affianca la moglie del regista, Bérénice Béjo, bellissima e vivace “maschietta”, che sembra uscita da uno dei racconti più scintillanti di Francis Scott Fitzgerald. E sono perfetti anche gli attori “secondari”, da John Goodman a James Cromwell. A tutto questo Hazanavicius aggiunge le belle musiche di Ludovic Bource e un concetto di regia davvero moderno: senza spoilerare niente, diremo che il film non è interamente muto, e l'uso che il regista fa del sonoro è – ancora una volta – di un'intelligenza non comune. Come i grandi film che Hollywood non sa più darci, con il loro carico di emozione pura e glamour assoluto, The Artist compie il suo miracolo lasciando lo spettatore contento e stupito, con la voglia, probabilmente, di rivederlo ancora una volta. In mancanza della voce lo sguardo torna protagonista e il cinema, “che è diventato piccolo” come diceva Gloria Swanson, riacquista le sue giuste dimensioni.

martedì 6 dicembre 2011

Almanya, la mia famiglia va in Germania - la recensione 

Fare un film, soprattutto il primo film, pensato, scritto e cambiato per poi essere presentato al mondo. Un po' come l'atteso momento di riempire un'ideale "pagina bianca", con la propria determinante e personalissima storia, o conoscenza, o immaginazione che sia. Ciò che la dovrebbe rendere diversa dalle altre, comunque importante quanto le altre, e farla rimanere bene a galla, nel tempo. Sfida difficile, tentata da molti, vinta da pochi.
La regista Yasemin Samdereli che dieci anni fa, insieme alla sorella Nesrin, ha iniziato a scrivere sulla sua "pagina bianca", conclude il suo percorso di iniziazione al cinema, lasciandoci davanti agli occhi, un album di famiglia dai colori caldi e vividi, su cui restano impressi ricordi e racconti pieni di indiscutibile valenza emotiva.
Non era un gioco facile il suo, soprattutto in patria. Partendo dal proprio vissuto di giovane di origine turca - ormai naturalizzata tedesca da due generazioni - la regista ha voluto, e cercato di raccontare (di nuovo e a suo modo) il senso profondo dell'essere immigrati, la realtà che meglio conosceva, e che aveva urgenza di venire alla luce. Aggiungendo così, un altro piccolo tassello, stavolta lieve e colorito, che si inserisce nella storia di una cinematografia che, da anni, affronta il tema dell'integrazione, in un'ottica conflittuale e drammatica.
Scongiurato il rischio di essere condannato per faciloneria, e respinto come superficiale voce fuori dal coro di serietà e impegno (il film infatti è stato accolto positivamente dalla critica, e da un clamoroso successo di pubblico, in Germania), restava un altro, e forse più ingrato, compito. Quello di emergere tra le numerose pellicole internazionali che, da oltre un decennio, "festeggiano" il melting pot multi-etnico, raccontandone, attraverso i toni della commedia, anche i non trascurabili fallimenti e complessità. Tutt'intorno il paese, nuovo e freddino, che storcendo il naso li accoglie, in mezzo loro: pakistani, indiani o turchi che ballano, mangiano, ridono e piangono. Come in molti film, anche in questo. La trappola della memoria nostalgica e della cronaca dolce amara di lontananza e storia familiare, può infatti tradire anche la sceneggiatura più fresca.
Le sorelle Samdereli amano i classici della commedia, e la loro narrazione rimane quasi sempre brillante e cristallina, e i momenti di retorica sentimentalista si fanno dimenticare, in un lavoro di scrittura dall'ottima tenuta che, come racconta la regista, può ringraziare sinceramente riferimenti come Ernst Lubitsch e Woody Allen.
La storia del patriarca Hussein Yilmaz, (che per un soffio non fu il milionesimo e acclamato Gastarbeit della Germania del 64), pronto, dopo quaranta anni a portare tutta la famiglia, in Anatolia, dove segretamente ha acquistato una piccola casa, è cadenzata dai flash back che la giovane nipote crea, raccontandola al piccolo cuginetto Cenk, in piena crisi di identità culturale.
La famiglia Yilmaz infatti è tedesca a tutti gli effetti, sottoscrivendo anni prima un patto infernale che li obbligava a mangiare maiale tutti i giorni, vedere l'Ispettore Rex una volta a settimana, e andare ogni due anni in vacanza a Palma di Maiorca.

E' forse il fatto che sia spesso il punto di vista dei bambini, a coincidere con il racconto dei fatti, che rende più tangibile lo stupore davanti allo sconosciuto e diverso, l'assurdità dei pregiudizi (quasi inevitabili) e l'aspetto anche grottesco di certe paure; è infatti questa flagranza, il punto di forza del film. Insieme ad essa, la performance globalmente riuscita, di un cast "multiculti", in Italia poco conosciuto, ma meritevole di grande attenzione.
Così il terrore per il crocifisso, truculenta figura che perseguita Muhamed, il secondo figlio di Hussein, o lo spettro paradossale del cannibalismo, nato dall'idea del sacramento della comunione, aggiungono garbatamente una prospettiva in più, quella sulla diffidenza turca nei confronti del paese ospitante, come ulteriore modo per guardare ai propri limiti, dalla parte opposta della "barricata".
Cavalcando il surreale, con regia e fotografia che ricordano (non poco) il Jean-Pierre Jeunet di Delicatessen e de Il favoloso mondo di Amélie, nella ricerca dell’effetto un po' si eccede; ma sono comunque di più i momenti preziosi in cui, sorridendo e ridendo, nitidamente si guarda a ciò che significa essere perennemente stranieri, andata e ritorno, attratti e respinti dai due poli, tra cui sono divise intere generazioni.

Mosse vincenti - la recensione del film con Paul Giamatti

A vederlo superficialmente, Mosse vincenti sembra solo l’ennesima storia di riscatto esistenziale di un loser di mezza età, capace di rimediare ai suoi errori e alle sue sconfitte grazie alla novità nella sua vita incarnata da un adolescente problematico che gli fa riscoprire stimoli e bussola morale. E, sia detto per inciso, la scelta di affidare il ruolo del protagonista, Mike, al sempre più manierato e detestabile Paul Giamatti sembrava coerente al disegno generale.
Ma l’opera terza di Tom McCarthy (che ha intervallato il cinema con la realizzazione del mai trasmesso pilot del serial di culto Game of Thrones

), è a suo modo un film più complesso di quanto il sunto della sua trama (superficiale, appunto) possa lasciar intendere.
Il regista stesso, presentando il suo film, ha ribadito come le motivazioni economiche che dettano il comportamento iniziale del suo protagonista (quelle che precedono l’arrivo della variabile imprevista rappresentata da giovane Kyle) siano un’ovvia chiave interpretativa che permette di leggere Mosse vincenti come una sorta di apologo morale sulla vita ai tempi della crisi.
Una crisi pervasiva, capace di destabilizzare ben oltre il livello immediato, provocando una corruzione che è per l’appunto morale e interiore prima ancora che relativa a fatti e cifre.
McCarthy
, nel tratteggiare questi aspetti, smorza sensibilmente i toni rispetto alle sue opere precedenti, risultando meno dolente e molto più conciliato, nell’evidente intenzione di gettare una luce di speranza che non significa superamento ma sincera accettazione e organica convivenza con le difficoltà (economiche e non) della vita.

Se nel far ciò non scivola eccessivamente nel buonismo è anche e soprattutto grazie alla capacità di scrittura che ha sempre dimostrato di avere, all’abilità di tratteggiare con leggerezza e incisività sia i protagonisti che la rete di situazioni che si vengono a creare.

McCarthy
rende in questo modo vivi e credibili i suoi personaggi, sopperendo alla mancanza di spunti realmente originali e livellando le asperità di una storia che, soprattutto nel finale, scivola a volte nel patetismo prevedibile e programmatico dei buoni sentimenti e della riscossa a tutti i costi.

Questa scrittura, unita la volontà di guardare dentro alle teste e ai cuori dei protagonisti, e non solo dentro il loro portafogli, rendono però
Mosse vincenti un film costruito su dettagli e sfumature che rendono l’idea di un insieme e di un sentimento ben più dello stagliarsi delle figure e dei temi in primo piano.
E tra un dettaglio e l’altro, intervallato da alcuni dialoghi e battute decisamente brillanti, il film lascia anche intravedere, oltre alle riflessioni economiche in evidenza (e quindi secondarie), anche un’idea di famiglia assai meno tradizionale e rassicurante di quanto non appaia in prima battuta, arrivando a mettere dolcemente in dubbio il dogma del diritto biologico ad esercitare il ruolo di genitore.

venerdì 2 dicembre 2011

Il giorno in più - la recensione del film con Fabio Volo


Il Volo newyorkese è stato sereno, non sorprendente, moderatamente lungo, gradevole senza sbalzi folli (forse qualcuno d'umore). Abbiamo guardato fuori pensando che un film tratto da un suo libro sarebbe arrivato presto, e quello italo-americano aveva più chance di tutti. E' stato così, e questo è il modo in cui hanno distribuito le carte. Metà a Massimo Venier, metà a Fabio Volo, in coppia con Isabella Ragonese.

Tra Milano e New York Il giorno in più è di Massimo Venier nella proporzione stilistica, nella fluidità narrativa tra due centri cittadini, nella commedia soft che apre i battenti al sentimento e alle dolci svolte di percorso. E' di Fabio Volo per un buon libro che è idea sua (rivisto e aggiornato per il cinema insieme al regista, Pontremoli e Pellegrini), per un personaggio che si aggancia fin troppo a lui, per un'immediatezza emozionale che è il suo maggior pregio, ma va calibrato ad ogni nuova occasione.

Giacomo (Fabio Volo) e Michela (Isabella Ragonese) hanno ragione entrambi di vivere a Milano, a modo loro. Lui da simpatica canaglia, da uomo di successo che indovina i desideri altrui, ma non i suoi, che vuole le donne a breve, avendone però un costante bisogno. Lei, di lei non si sa molto, se non che lavora, è spiritosa oltre che bella, e senza acidità sa cosa aspettarsi da molti primi appuntamenti. Questi della storia sono i binari e della contemporaneità i segni. Se Michela non dovesse partire, la magia dei soli sguardi in tram e della donna ideale disegnata in fantasia da Giacomo (ad amici e parenti), rimarrebbe confinata lì. Invece la commedia di Venier passa l'Oceano per diventare romantica e possibilista. Passa l'Oceano per determinare il gioco di una coppia appena formata, che non vuole definirsi per stare insieme. Quindi sceglie, negli stessi luoghi, vie, parchi di molti altri amanti classici e moderni, di vivere un delizioso concentrato "a termine". E' una sensazione nuova per loro, che arriva a noi con la spontaneità del disimpegno e il calore timido del primo approccio (iniziato con un gesto impulsivo del protagonista).

Nelle necessarie rifiniture alla pagina scritta da Fabio Volo, si perde però qualcosa di confidenziale e ironico che approfondiva il sentimento, dei pensieri slegati o impacciati che pesavano sul coinvolgimento. Il film fugge a ragione l'incedere stucchevole e desueto, semplificando a tratti la via, sfiorando l'arguzia degli scambi verbali che connota poco l'onestà di fondo. New York, trattata con piacevole cautela dal regista, diventa il posto in cui si corre il rischio (normalizzato) di essere sciocchi e innamorati. Dove quest'ultimo andava appesantito delle incaute follie d'amore, dei desideri confusi di coppia, di un'immaginazione giocosa più personale, andava invece smussato e contaminato il carico di indifferenza milanese.

Non meno irrazionale e sfumato, anche se moderno, il romanticismo ha molte strade e poche misure. Per chi ne ha paura il volo newyorkese può essere una buona partenza.